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LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA

L’ASSALTO DEL VASCELLO FRANCESE AL CASTELLO E AL FORTE
Nell’aprile 1799 l’eroica resistenza dei pochi difensori capitolò dopo
quattro ore di duri combattimenti contro i francesi

Alle prime ore del mattino del 9 aprile 1799 la vedetta appostata sulla torre di Punta Penne, a pochi km a nord del centro abitato di Brindisi, avvistò un grosso veliero da guerra diretto a sud. Era seguito da otto imbarcazioni più piccole, tutte veleggiavano a grande velocità verso l’ingresso del porto. La sentinella locale comunicò con solerzia il pericolo, che venne segnalato con medesima rapidità alle fortezze dell’isola di Sant’Andrea, da sempre a sostegno e protezione della città.

Brindisi, come gran parte del Salento, era sotto il controllo delle truppe sanfediste che volevano riportare sul trono di Napoli il re Ferdinando IV di Borbone, fuggito a Palermo dopo che a gennaio di quell’anno le milizie giacobine e i rivoluzionari democratici avevano conquistato la capitale del regno e proclamato la Repubblica Napoletana, con a capo Carlo Lauberg e suo vice il fasanese Ignazio Ciaia. I brindisini, avversi al nuovo sistema politico, avevano sempre dimostrato simpatia nei confronti dei Borbone, difatti la notte del 14 febbraio intrapresero decise dimostrazioni popolari controrivoluzionarie capeggiate dagli abitanti del quartiere della marina, durante le quali vennero innalzati simboli e bandiere borboniche ed arrestati alcuni partigiani locali fedeli alla neonata Repubblica. A sostenere il governo democratico c’erano invece le truppe e la flotta francese, di cui faceva parte l’imponente bastimento che quella mattina avanzava a vele spiegate verso il porto della città. Si trattava del Génereux (Generoso), uno dei pochi vascelli francesi scampati alla catastrofica battaglia navale di Abukir grazie all'eroismo del suo comandante La Joailles.
La nave era partita a fine marzo da Ancona ed era diretta a Corfù con a bordo un battaglione dell'ottavo reggimento e un grosso convoglio di viveri e munizioni, ma durante la rotta, avendo conosciuto il destino dell’isola ormai caduta in mano nemica, decise di occupare Brindisi.


Il vascello francese Generoso in un dipinto in un dipinto di C. H. Seaforth e Charles Hullmandel

La poderosa imbarcazione aveva inalberato con inganno una bandiera russa, nazione alleata dei borboni, pertanto riuscì ad entrare nel porto di Brindisi “con la rapidità di un uccello marino”, rispondendo persino al saluto delle salve di cannone sparate da Forte a Mare, dove erano appostati il maggiore di artiglieria Giustiniano Albani, “il bravo artigliere Lafuenti”, e il nobile brindisino D’Errico Spada, divenuto capitano onorario di uno dei più noti e controversi personaggi dell’epoca, l’esule anglo-corso Giovanni Francesco Boccechiampe, scambiato - in quella che fu definita una sorta di allucinazione collettiva - per uno dei fratelli del sovrano. Il commissario regio di origini corse in quei giorni era impegnato a risistemare le fortificazioni in rovina dei due castelli brindisini e cercava di organizzare al meglio la difesa della città.
I pochi militari presenti quella mattina nel fortilizio dell’isola di Sant’Andrea, che attendevano l’arrivo di rinforzi dalla vicina isola greca, non si fidarono del segnale amico rappresentato dal vessillo alleato sventolante sulla poppa della nave da guerra, pertanto restarono sulla difensiva e si prepararono ad affrontare ogni evenienza. In effetti quando il possente veliero si fermò sotto il cavaliere del castello alfonsino, in una posizione favorevole e al riparo dalle batterie laterali delle fortezze, issò la bandiera francese e con i suoi settantaquattro cannoni aprì un fuoco violento che in breve tempo distrusse quasi interamente il fianco destro del fortilizio. Gli artiglieri del forte risposero quasi immediatamente al fuoco, e con una certa fortuna riuscirono persino a colpire, con il “primo sparo di una palla di cannone”, l’eroico comandante della nave nemica; "l’uffizial di Marina del più gran merito" fu poi sepolto con grandi onori sotto le mura del Forte. Le cronache dell’epoca raccontano che i colpi di cannone esplosi durante il combattimento furono talmente fragorosi da “rimbombare in tutta la provincia di Lecce”.


Forte a Mare e Castello Alfonsino dall'alto (ph. Gruppo Archeo BR)

Durante lo scontro il vascello francese, nel manovrare e presentarsi su entrambi i fianchi della fortezza, si incagliò nella cosiddetta “secca del fico” e non riuscì più a virare, subendo i colpi di artiglieria diretta dal Boccheciampe: anche il secondo ufficiale francese che aveva preso il comando della nave fu centrato alle gambe da una palla di cannone, “… e se ne andò a morire dopo alcuni giorni ad Ancona”. La nave, malconcia, fu persino costretta a cessare il fuoco, ma venne salvata dall’arrivo delle otto paranze barlettane con a bordo i circa mille uomini delle truppe da sbarco che assaltarono la fortezza sul lato sprovvisto di difensori. La superiorità numerica fu tale da rendere l’assalto difficile da fronteggiare, e nonostante la vigorosa risposta, la fortezza capitolò dopo ben quattro ore di coraggiosa resistenza. I pochi soldati realisti che si erano distinti nella disperata difesa del castello e della città furono tutti catturati e malmenati.


Dettaglio mappa espugnazione del forte (Collezione del principe Giovacchino Ruffo di S.Antimo, Lequile)

Anche dalla collina delle colonne venne innalzata la bandiera bianca in segno di resa, ed una deputazione composta da alcuni rappresentanti delle principali autorità politiche e religiose locali, fra loro anche l’arcivescovo Annibale De Leo, si recarono in barca al castello di mare per trovare un giusto accordo con i francesi ed evitare saccheggi e scorribande dei soldati transalpini. La delegazione fu “benignamente accolta ed anche trattenuta a mensa”, ottenendo l’occupazione militare della città con “l’entrata amichevole delle truppe”. I circa mille militari francesi furono alloggiati in parte nel Seminario e in parte nelle case religiose, mentre gli ufficiali furono ospitati nell’episcopio.


Castello Alfonsino, la darsena (2004)

Da subito i francesi si adoperarono per risistemare la fortezza e rafforzare le difese urbane, montando alcuni cannoni sulle mura e sul bastione di Porta Mesagne, in questo modo riuscirono a respingere un disorganizzato tentativo di riconquista da parte dei realisti. Ma giusto una settimana dopo averla conquistata, lasciarono inaspettatamente Brindisi sia dal mare che via terra, abbandonando tutto ciò di prezioso che avevano requisito: la mattina del 16 aprile infatti, con una rapidità da sembrare più una fuga piuttosto che una ritirata strategica generata quasi certamente dall’arrivo della flotta nemica, riuscirono solamente a gettare in mare la polvere da sparo presente nella fortezza, lasciando in città l’argenteria, abbondanti derrate alimentari (farina, vino, fagioli, ceci, biscotti e carne salata) e numerose munizioni.
Alcuni di questi beni furono razziati il giorno successivo dall’equipaggio di un brigantino africano, allontanatosi arbitrariamente dalla flotta alleata per avere mano libera nel bottino, i marinai una volta sbarcati in città avevano issato la bandiera ottomana proprio sul Forte, struttura militare realizzata in funzione antiturca, e sovraccaricata la loro imbarcazione di “copiosa preda”, ripartirono in fretta e furia.

La mattina del 18 aprile giunse finalmente il naviglio alleato agli ordini del plenipotenziario del re Antonio Micheroux, insieme alla corvetta borbonica Fortuna fecero ingesso del porto medio due fregate russe, un brick e una corvetta turca. Quaranta soldati russi, venti napoletani e dieci turchi si impadronirono della città innalzando l’insegna reale dei Borbone. In tre giorni consecutivi Brindisi aveva mutato per altrettante volte padroni e bandiera.

Giovanni Membola
per Il 7 Magazine n.101 del 7/6/2019


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