LE STORIE DELLA NOSTRA STORIA
I BRIGANTI ALL'ASSALTO
DELLE MASSERIE DEL BRINDISINO
In soli tre mesi furono numerose le masserie
dell’agro di Brindisi a subire devastazioni e
minacce dalle bande di briganti, alcune furono incendiate
e più volte distrutte
Nell’era post
unitaria numerose formazioni di briganti imperversarono
in tutto il meridione del neonato Stato italiano, contrapponendosi,
spesso brutalmente, alle truppe della Guardia Nazionale,
ai soldati piemontesi e ai carabinieri. In questa fase
storica le bande di fuorilegge erano composte da ex
militari borbonici, contadini, pastori e da gente comune
esasperata, ma anche da banditi ed ex galeotti.
Le azioni militari repressive furono altrettanto dure
e spietate, talvolta con arresti di massa, massacri
indiscriminati ed esecuzioni sommarie della popolazione
inerme. Non mancarono le deportazioni, le violenze sulle
donne e i saccheggi, ciò oltre ad incrementate
la ribellione,alimentò la rabbia e la frustrazione
della popolazione, facendo convergere numerosi uomini
(a anche donne) ai gruppi di briganti. E’stata
l’unica grande insurrezione popolare avvenuta
nel Regno delle Due Sicilie dopo quella di Masaniello
a Napoli, avvenuta nel luglio del 1647.
Gruppo di briganti meridionali
(dal web)
La principale causa
del rabbioso e disperato fenomeno del brigantaggio è
stato riconosciuto nelle “speranze del popolo
tradite” e soprattutto nella condizione sociale
della classe più povera della società
meridionale: contadini, braccianti, nullatenenti in
genere continuavano ad essere vittime di ingiustizie,
sopraffazioni e dell’esoso fiscalismo unitario,
e se il misero guadagno non bastava, erano costretti
a rivolgersi all’usuraio e al banco dei pegni,
ma “esausto l’infame mercato,[il contadino]
piglia il fucile e strugge, rapina, incendia, scanna,
stupra e mangia” (F.S. Sipari, 1863). La
rivolta veniva altresì fomentata dall’ex
sovrano Francesco II di Borbone, in
esilio nello Stato Pontificio.
Più circoscritto,almeno
nello spazio di tempo che va dal settembre a tutto novembre
1862, il fenomeno del brigantaggio nel brindisino: secondo
lo storico Vincenzo Carella, uno dei
primi ad approfondire gli avvenimenti locali già
dai primi degli anni Settanta del Novecento, in quei
tragici mesi vi fu un importante e fertile focolaio
di brigantaggio politico,“iniziato in forma
organica e sistematica con episodi di violenza, sequestri
di persone, ricatti, uccisioni e invasioni al grido
‘Viva Francesco Secondo! Abbasso Vittorio Emanuele!’,
episodi posti in essere da un nucleo iniziale assai
ridotto di uomini, via via ingrossandosi sino a superare
le duecento unità, armate e a cavallo”.
Il sistema di lotta messo in atto dalle bande era quasi
sempre la guerriglia, tattica fondata sui rapidi spostamenti
e basata sulla perfetta conoscenza del territorio, con
imboscate, aggiramenti e attacchi ai fianchi dei reparti
militari. Le aggressioni erano quasi sempre a sorpresa
e accompagnati da spaventose grida selvagge, seguite
da improvvise e rapide ritirate nei boschi e nei luoghi
inaccessibili. Non mancavano gli scontri frontali, preferiti
solo quando vi era una evidente superiorità numerica.
I briganti potevano contare su una rete di informatori
che riferivano sulle mosse e gli spostamenti dei militari,
grazie ad un sistema arcaico di segnalazione difficilmente
intercettabile, come luci notturne, segnali di fumo,
segni convenzionali in luoghi prestabiliti, fischi e
imitazioni di versi di animali.
Masserie Cuoco negli anni '70
L’organizzazione
banditesca era capeggiata dall’ex sergente dell’esercito
borbonico Pasquale Domenico Romano,
per questo conosciuto come il “sergente
Romano”, che progettava persino
di liberare i detenuti dal Bagno Penale di Brindisi
e dare inizio, con le altre bande brigantesche, al movimento
insurrezionale dell’intero mezzogiorno. Era coadiuvato
da alcuni luogotenenti, tra loro il carovignese Giuseppe
Nicola Laveneziana, noto anche come “lu
figghiu di lu Re”, un criminale distintosi per
le atrocità e per i numerosi e ripetuti attacchi
alle masserie del territorio, episodi che nulla avevano
a che fare con il progetto rivoluzionario del brigantaggio
politico.
Le masserie, soprattutto quelle dei proprietari liberali
e anti borbonici, rappresentavano un facile bersaglio
per le bande di briganti comuni: essendo isolate venivano
agevolmente assaltate e depredate di fucili, munizioni,
cavalli, alimenti, foraggio e altri materiali di sostentamento.
Spesso venivano lasciati biglietti di ricatto destinati
ai proprietari, redatti in una forma sgrammaticata,
non mancarono i sequestri di persona, come avvenne il
9 settembre alla masseria Masciarella
di Carovigno, dove la banda del Laveneziana prese in
ostaggio Vincenzo Brandi, il figlio
sedicenne del proprietario, chiedendo in cambio della
sua liberazione “mille ducati, 4 camiso, na
parodi stivalo, un focilo buono, 2 paccotto di sigaro”.
Il ragazzo riuscì a saltare dalla giumenta e
a mettersi in salvo mentre la banda veniva inseguita
dalle guardie nazionali.
Il biglietto di riscatto a don
Pasquale Perez
Il giorno dopo fu
la volta della Masseria Cuoco di don
Pasquale Perez, tra Brindisi e Mesagne,
dove in passato il brigante Laveneziana aveva lavorato
come fittavolo insieme alla sua famiglia: il fuorilegge
pretese, con una lettera da far recapitare al proprietario,
un riscatto di seicento ducati, corrispondente al valore
delle pecore che in precedenza l’ex allevatore
aveva ceduto ma non gli erano state pagate. Il 3 ottobre
il brigante tornò con la sua compagnia di cinquanta
banditi, ma venuta meno la risposta del Perez, e ossessionato
dalla sete di vendetta,andò su tutte le furie:
ordinò ai suoi uomini di uccidere tutti i tredici
buoi a fucilate, di devastare e incendiare alcune stanze
del fabbricato, oltre ai carri e il fieno, fortunatamente
un gregge di pecore fu salvato dal rogo attraverso un
varco aperto nella corte. Furono rubati un cavallo “di
manto morello” e tanta altra merce di valore;
non contento,il bandito minacciò di mettere fuoco
anche alla dimora della famiglia Perez a Brindisi, (il
palazzo è quello rosso che si affaccia sulla
piazzetta delle Colonne del porto), sfidando apertamente
le forze dell'ordine "invitandoli" a recarsi
a Tuturano: “se hanno coraggio, venissero
al piano della masseria S.Teresa, che là li aspettiamo".
Del massacro lì avvenuto, dell’assalto
a Carovigno e alla masseria Badessa, abbiamo già
raccontato (link)
del nostro settimanale. La masseria di Pasquale Perez
fu nuovamente bruciata e distrutta qualche settimana
dopo mentre veniva ristrutturata, per i malviventi doveva
essere ridotta a un demanio. Il sindaco Balsamo
a quel punto ne ordinò la chiusura e la cessazione
dell’attività.
La notte del 10 settembre,
subito dopo aver spaventato i braccianti della masseria
Cuoco, la banda si era recata anche alla vicina masseria
Lucci, di proprietà di Innocenza
e Chiara Perez, le sorelle di Pasquale. Qui
pretesero pane, avena e qualche indumento, e lasciarono
al massaro il solito biglietto di riscatto da consegnare
alle padrone, in cui chiedevano "200 piastre
e le spese dello fumare". La masseria venne
comunque risparmiata anche senza il pagamento del riscatto,
avevano appreso che le due sorelle erano in contrasto
con Pasquale,e per questo “… le perdonavano”.
Il 2 ottobre fu la volta della Masseria Masciullo
di don Francesco De Castro di Mesagne,
dove oltre quaranta briganti si introdussero nei fabbricati,
devastarono, depredarono e terrorizzando i lavoratori
dell’azienda agricola con pugnali e pistole, al
massaro Antonio Zullo fu lasciato un
biglietto per “do Cice di Castre”
a firma di Laveneziana,con la richiesta di “1000
piastro, 2 focile melotare, 6 paccotte di sichere”,cartucce
e altre munizioni.
Masserie Masciullo
In quei pochi mesi
numerose altre strutture agricole brindisine furono
teatro di azioni brigantesche: Siribanda, Cerrito, Angelini,
Spada, Restinco, Baroni, Torricella, Specchia, Acquaro
e diverse altre dei paesi vicini, mentre quelle dei
proprietari “amici” venivano utilizzate
come rifugio sicuro e come fonte di approvvigionamento.
Un editto della Prefettura della Provincia di Terra
d’Otranto emesso il 30 ottobre 1862, minacciava
la chiusura delle masserie “che per la loro
posizione topografica, o per l’indolo sospetto
dei padroni e dei massari potessero servire di ricetto
ai briganti”, mentre per le altre venne prescritta
la riduzione delle scorte di foraggio e cibo per “la
quantità strettamente necessaria alle persone
che vi abitano”.
Giuseppe Nicola Laveneziana venne catturato e giustiziato
il 18 dicembre 1863.
Giovanni
Membola
per Il 7 Magazine n.163 del
4/9/2020
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