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SAN PANCRAZIO SALENTINO

L’incursione dei saraceni dell'1 gennaio 1547 raccontata in un affresco

Nella chiesa di Sant’Antonio da Padova le scene delle mutilazioni avvenute nella notte dell’1 gennaio 1547 durante l’assalto delle milizie ottomane che richiamano le efferate azioni delle milizie dell’Isis

Un prezioso affresco racconta, in una particolare raffigurazione animata, l’assalto dei turchi ottomani e la distruzione del borgo di San Pancrazio avvenuta il primo giorno dell’anno del 1547. La pittura murale dal grande valore storico più che artistico, fu scoperta nel maggio del 1983 durante i lavori all’interno della chiesa di Sant’Antonio da Padova, il più antico tempio cristiano del paese, e rappresenta una rara testimonianza visiva utile a ricostruire i drammatici avvenimenti sino ad allora tramandati verbalmente per generazioni, e a confermare quanto riportato sulle rare fonti scritte.


San Pancrazio Salentino, chiesa di San Antonio da Padova

La storia della Terra d’Otranto è purtroppo ricca di episodi riguardanti sanguinosi e feroci assalti di truppe saracene nei paesi e nelle campagne lungo le coste e nell’entroterra salentina. Le sofferenze patite dai nostri antenati durante le numerose scorribande maomettane, vengono ancora ricordate con il grido “Mamma li turchi”, un richiamo di allarme più che di terrore adottato dagli abitanti dei luoghi costretti a subire con frequenza le scorrerie ed ogni sorta di barbarie. Furono infatti diversi i paesi della nostra provincia a soffrire i violenti saccheggi subito dopo i tragici eventi del 28 luglio del 1480, quando la città di Otranto venne assediata e poi invasa dalle truppe turco ottomane al comando di Gedik Ahmet Pascià, che segnò il martirio e la morte di ben 813 residenti.
Uno di questi luoghi fu San Pancrazio Salentino, all’epoca un piccolo borgo abitato da meno di mezzo migliaio di anime: secondo le Cronache di Antonello Coniger, il 5 settembre di quell’anno un gruppo di quattrocento cavalieri turchi sbarcò a San Cataldo, devastando i paesi e massacrando la popolazione dell’entroterra spingendosi sino alla costa ionica del Salento.

Il successivo e più violento assalto avvenne la notte dell’1 gennaio 1547, quando un centinaio di corsari saraceni, a bordo di cinque galeoni, sbarcarono a Torre Colimena. A guidarli vi era un certo “Chria” (Cria), un uomo originario di Avetrana che aveva abiurato la propria religione, e per vendicarsi del paese di origine aveva organizzato la sanguinosa spedizione. Qualcosa però fece cambiare la destinazione agli invasori, che invece di assaltare “Veterana” (Avetrana) decisero di dirigersi al vicino casale di San Pancrazio, dove non vi non vi erano difese sufficienti per respingere gli attacchi delle forze turche. Probabilmente furono i suoni dei tamburi di quella notte, le cosiddette “mattinate” che si svolgevano nei periodi natalizi in molti paesi della Terra d’Otranto e che si ripetono ancora in alcune località della Grecìa Salentina, a far dubitare “che non fosse la guardia di qualche presidio militare” a difesa del luogo oggi ricadente nella provincia di Taranto, e quindi deviare l’orda saracena verso il borgo brindisino.


San Pancrazio Salentino, chiesa di San Antonio da Padova, affresco dell'assalto del 1547

Fu proprio questo tragico evento ad essere poi ritratto sulla parte alta del muro in corrispondenza dell'ingresso laterale della bella ed antica chiesetta, probabilmente dopo la ricostruzione della stessa avvenuta nel 1551. Quanto raffigurato sull’interessante rappresentazione pittorica conferma il racconto riportato sull’unica fonte scritta che descrive il saccheggio e la distruzione di San Pancrazio, la Cronaca “unius libelli”, ovvero la dissertazione enciclopedica sulla provincia manoscritta dal medico e filosofo salentino Girolamo Marciano (1571-1628).

Le scene dell’affresco sono riprodotte in stile fumettistico simile a quello dei cantastorie, con particolari e dettagli che lasciano intendere l’efferatezza e la violenza avvenuta durante l’incursione, una vera e propria rarità nell’intero meridione. Nella parte alta del dipinto si intravedono le navi turche mentre si avvicinano alle coste ioniche della Puglia, su una di queste imbarcazioni è issato lo stendardo rosso con una falce di luna, mentre a terra un esercito a cavallo - che potrebbe rappresentare le guardie di presidio temuto o incontrato dagli invasori – si avvicina alla costa; a destra l’assalto dei soldati turchi (si distinguono dai turbanti e dalle tipiche spade a lama ricurva) ad una torre o un castello, che potrebbe essere Torre Colimena o Avetrana, quindi subito in basso le scene diventano ancora più esplicite e brutali, con uomini e donne mentre vengono catturati prima di essere deportati e venduti come schiavi. Qui viene mostrato anche un uomo decapitato che giace per terra, ed un altro sempre steso, nudo e già ferito, che continua ad essere colpito da un saraceno.

Al centro del riquadro è rappresentato un giovane che regge un bambino in fasce nell’atto di fuggire al suo aggressore, e poco sopra un’altra persona nuda che cerca di coprirsi con un ampio lenzuolo bianco. A sinistra di questa scena, al centro nella parte bassa dell’affresco, è raffigurato il “rinnegato” Cria (il nome è chiaramente indicato in basso) svestito e legato ad una colonna mentre viene lapidato dalla popolazione: il traditore è colpito dalle frecce tirate con le balestre e dalle pietre lanciate da alcuni bambini. Su un albero alla sinistra del condannato si possono notare gli arti di una persona mutilata che pendono da un albero di ulivo. I dettagli dei corpi decapitati e martoriati sono stati considerati di eccezionale attualità, in quanto richiamano in modo sinistro le efferate azioni delle milizie dell’Isis.
L’infame Cria, probabilmente il primo foreign fighter della storia, potrebbe essere stato catturato dopo l’assalto, o forse tradito a sua volta e consegnato alla popolazione proprio dai turchi, prima di essere linciato e sopportare una prolungata agonia.

La cittadina fu rifondata mezzo secolo dopo dall’Arcivescovo Aleandro, ed è rimasta frazione di Torre Santa Susanna sino al gennaio 1839, quando per decreto di Ferdinando II di Borbone divenne comune autonomo.
All’interno dell’interessante chiesetta di Sant’Antonio, costituita da un’unica aula con volta a botte, sono conservati un antico fonte battesimale, numerose sepolture ed altri importati affreschi di più alto valore artistico rispetto a quello che racconta l’assalto del XVI secolo, tra cui una “Dormitio Virginis” ricca di significati legati ai vangeli apocrifi. L’edificio sacro una volta era collegato al vicino ed imponente palazzo arcivescovile, chiamato anche Castello, nel quale i vescovi brindisini preferivano sostare sia durante le visite pastorali che nei mesi estivi per la buona aria e per i rigogliosi giardini che circondavano queste costruzioni.

La piccola cittadina della nostra provincia, nota anche per la produzione di qualità di uve e di vini, merita certamente una visita, esistono infatti altri particolari interessanti da conoscere sia nel centro abitato che nei dintorni, dove sono numerose le grotte utilizzate dai monaci basiliani, su tutte la “Grotta dell'Angelo”, in origine una tomba a camera risalente al VIII - IX secolo, scavata nella roccia e ricca di un'interessante decorazione pittorica tipica dell'iconografia bizantina.

Giovanni Membola
per Il 7 Magazine n.99 del 24/05/2019

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